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C’è stato un tempo in cui la Roma dei canestri era una potenza, non soltanto nell’ambito dei confini nazionali. Il primo scudetto conquistato da un club del centro sud nella sfida metropolitana con Milano, anno 1983. La coppa campioni alzata al cielo di Ginevra nel 1984 contro un altro avversario di rango: il Barcellona. L’intercontinentale messa in bacheca lo stesso anno. La Korac nella stagione 85-86, suggellata dal doppio confronto con la Juve Caserta.

Una carriera arricchita dall’oro europeo di Nantes, sempre in quel magico 1983, dall’argento olimpico di Mosca 1980, e dal bronzo continentale di Stoccarda nel 1985. In tutti questi successi, il mio interlocutore ha sempre giocato ruoli di primo piano. Si è fatto apprezzare anche a Brescia e Napoli, le uniche due “scappatelle” professionali al di fuori della capitale. Dal 2016 è incluso nella Hall of fame italiana.

Per gli amici di 𝑷𝒂𝒔𝒔𝒊𝒐𝒏𝒆𝑩𝒂𝒔𝒌𝒆𝒕 ecco allora la mia intervista a Enrico Gilardi. Buona Lettura!


D.) Mi è capitato di vedere una foto scattata alle recenti finali di coppa Italia. Lei è ritratto insieme ad altri campioni di qualche anno fa. Com’era la serie A, ai suoi tempi?

R.) “Un campionato competitivo e spettacolare, chiaramente molto diverso da quello attuale. Le partecipanti potevano contare solo su due stranieri, nella stragrande maggioranza dei casi fortissimi. Soprattutto, stiamo parlando di una serie A dove gli italiani erano protagonisti. L’identificazione tra le squadre dove si militava e le città che queste rappresentavano era fortissima, anche da parte di chi veniva da altre nazioni. Infine, particolare non certo secondario, la tecnica predominava sulla fisicità. Oggi accade l’esatto contrario, quasi sempre”.

D) Da dove nasce la scalata di Roma ai vertici?

R.) “Prima del Banco, avevamo raccolto risultati di rilievo con la Stella Azzurra. Vedi la semifinale di coppa Korac, e l’onorevole sconfitta ai quarti dei playoff contro Milano. Quella squadra, sponsorizzata Perugina, avvicinò i romani al basket. La gente riempiva il palazzetto. Le basi per i trionfi degli anni successivi risalgono a questo periodo”.

D.) L’esplosione avvenne nella celebre annata 82-83, quando il vostro scudetto fece il paio con quello della Roma nel calcio.

R.) “Coach Valerio Bianchini conosceva l’ambiente, essendo stato alla guida della Stella Azzurra. Inoltre, aveva dimostrato di saper vincere in una piazza storica come Cantù. Il fatto che l’ossatura della squadra fosse composta da diversi romani ci diede un’ulteriore spinta, oltre a rinsaldare il rapporto con la città. Nell’anno dello scudetto aggiungemmo i tasselli giusti ad un impianto già valido. Non dimentichiamo l’apporto fornito da Kim Hughes, pivot titolare prima di infortunarsi e far posto a Clarence Kea, altro campione. Naturalmente, l’aver dalla nostra parte quel genio di Larry Wright fu decisivo. Al primo posto metto però un aspetto imprescindibile : la connessione tra dirigenti, giocatori e tifosi. Si verificarono tutti gli elementi per far sì che quel ciclo d’oro fosse possibile”.

D.)  Primo posto in regular season. Dopo aver eliminato Gorizia, foste chiamati ad affrontare la Ford Cantù.

R.)Cantù ci sconfisse davanti al nostro pubblico. Non ci perdemmo d’animo, sebbene fossimo con le spalle al muro. Espugnammo il Pianella, e completammo l’opera in gara-tre. Il successo a Cantù si rivelò determinante per arrivare all’agognato scudetto. Paradossalmente, quella famosa finale con Milano la vivemmo senza eccessiva ansia. Venimmo a sapere che già dalle prime ore del mattino la gente era in fila per acquistare il biglietto al botteghino. Non potevamo fallire, avevamo tutta Roma che palpitava per noi”.

D.) Gli stessi romani invasero Ginevra con ogni mezzo, pur di non perdersi l’epico confronto con il celeberrimo Barcellona.

R.) “Veder intere famiglie sobbarcarsi un viaggio lunghissimo pur di starci vicini ci spinse  ulteriormente a dare il massimo. Dopo un primo tempo pieno di difficoltà venimmo fuori alla distanza. Larry Wright ci prese per mano, ma tutti portammo il nostro contributo. Fu una vittoria di squadra, per questo ancor più indimenticabile”.

D.) Cosa successe nell’intervallo tra i due tempi?

R.) “Larry entrò furente negli spogliatoi. Sostenne di esser stato verbalmente provocato da Mike Davis, centro del Barcellona, che a quanto pare stava già pregustando la vittoria. Devi sapere che Wright detestava perdere, anche nelle partitelle di allenamento. Diede vita ad un monologo imperniato sullo slang della sua terra d’origine, la Louisiana. Ovviamente quelle parole ci risultarono incomprensibili, ma sortirono l’effetto di farci affrontare la ripresa con spirito battagliero”.

D.) Che tipo era il dottor Eliseo Timò, presidente di quel Banco?

R.) “Una persona dai modi eleganti, che gestì la società secondo criteri manageriali. Parliamo di un innovatore, molto avanti rispetto a quei tempi. Sapeva scegliere le persone funzionali al suo progetto. Non era certo un presidente padrone, non interferiva nelle scelte tecniche”.

D.) Quali gli allenatori che l’hanno formata?

R.) “Da ogni allenatore ho tratto insegnamenti, non soltanto professionali. il primo coach fu Donati, poi venne Asteo. Valerio Bianchini mi ha inculcato la mentalità vincente. Sandro Gamba mi inserì in un gruppo molto forte tecnicamente, concedendomi fiducia. Senza tralasciare Giancarlo Primo, altro pilastro della nostra pallacanestro”.

D.) Veniamo alla nazionale, altro capitolo ricco di soddisfazioni.

R.) “L’argento raccolto alle Olimpiadi di Mosca fu un risultato portentoso. Soprattutto perché conseguito sconfiggendo i sovietici in casa loro. L’oro agli europei di Nantes vide l’affermarsi di un gruppo basato sul mix tra ragazzi in rampa di lancio e campioni affermati. Quella famosa partita, così turbolenta con la Jugoslavia, ci diede la misura della nostra coesione. Gli Slavi si accorsero che l’Italia non era disposta a cedere. Uscimmo dal campo animati dalla convinzione che sarebbe stata dura per tutti batterci”.

D.) Di incontri che l’hanno vista sugli scudi ne ha giocati tanti. Ne esiste qualcuno che l’ha soddisfatta più degli altri?

R.) “Le partite con Cantù e Milano, in quei playoff 1983, mi videro protagonista anche a livello realizzativo. Stesso discorso vale per l’appena citata Italia-Jugoslavia. Queste sono le prime che mi vengono in mente. In finale con la Spagna rivestii’ un importante ruolo tattico. Nel Banco condividevo con Wright la gestione dei ritmi di gioco. Questo per dire che si può essere appagati in svariati modi, non soltanto segnando 30 punti”. 

Autore

  • Autore anche del libro “Un Canestro di ricordi“, opinionista per PassioneBasket, curerà per noi una rubrica dedicata al basket amarcord, denominata “𝗨𝗻 𝗧𝘂𝗳𝗳𝗼 𝗻𝗲𝗹 𝗣𝗮𝘀𝘀𝗮𝘁𝗼”.

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