Il solo talento non basta, se non è accompagnato da caparbietà e voglia di superare gli ostacoli. Claudio “Moses” Capone alla classe ha abbinato la determinazione, riuscendo anche per questo ad essere amato ovunque abbia giocato. Si mette in evidenza nella natia Chieti, da lì passa in quella Juve Caserta che iniziava a respirare aria di grande basket. Seguiranno esperienze proficue a Verona, Montecatini, Forlì, Arese, Fabriano, Roma, Pozzuoli, Avellino. Il palcoscenico della serie A lo ha calcato da protagonista, tra il 1985 ed il 2001. Nel ristretto novero di coloro che hanno superato i 10.000 punti nei campionati professionistici. Ha  raccolto lodi ed onorificenze anche nella nazionale italiana Master.

Per gli amici di 𝑷𝒂𝒔𝒔𝒊𝒐𝒏𝒆𝑩𝒂𝒔𝒌𝒆𝒕 ecco allora la mia intervista a Claudio Capone. Buona Lettura!


D.) Una curiosità, il soprannome “Moses” nasce dal mitico Moses Malone, asso della Nba?

R.) “Esatto. Sebbene sia alto “soltanto” 187 cm, da ragazzo ero particolarmente abile a rimbalzo, e mi facevo valere anche nelle altre fasi dei gioco. All’epoca in televisione furoreggiava la Nba, e Malone era uno dei nostri idoli. Da allora mi è rimasto affibbiato questo nomignolo, del quale vado ovviamente fiero”.

D.) L’ho ammirata dal vivo a Caserta. La ricordo scaltro con la palla tra le mani, insidioso in avvicinamento a canestro, non dava punti di riferimento al suo marcatore, oltre ad essere un realizzatore micidiale. Quali le sue impressioni, in merito a quei due anni vissuti all’ombra della Reggia?

R.) “Di Caserta conservo ricordi meravigliosi, sarei rimasto alla Juve tutta la vita. Sebbene non  fossi del posto mi integrai benissimo in questo contesto, non soltanto a livello professionale. Sappiamo come andò a finire, non volli certo andare via io”.

D.) Si diresse verso altri lidi, spiccando definitivamente il volo. Partendo dalla Scaligera Verona.

R.) “Dominammo il torneo di B nella stagione 87-88. Potevamo fare affidamento su un roster eccezionale. Brumatti, Malagoli, Lardo, Dalla Vecchia, Sfiligoi tra gli altri. Allenatore una leggenda come Dado Lombardi”.

D.) Quella sarà solo la prima di una sequela di promozioni, talvolta ottenute in squadre capaci di ribaltare ogni pronostico.

R.) “Nell’89 raggiunsi la A1 con Desio; tre anni dopo fu la volta di Montecatini; nel 95 l’exploit lo facciamo ad Arese; nel 2000 Avellino sbarca nel gotha della pallacanestro italiana. Naturalmente, ottenere risultati eccellenti in club non abituati a vincere accresce il valore delle imprese compiute”.

D.) In almeno due di queste vittorie strepitose lei appone firme indelebili. Mi riferisco ad Arese ed Avellino. Vogliamo ripercorrere le sensazioni provate?

R.) “La finale playoff del 1995 vedeva noi di Arese opposti alla grande Cantù. Superfluo aggiungere chi fosse la vittima sacrificale. Un mio canestro, a due secondi dalla sirena di gara-5 decise la serie. Nel 2000, ad Avellino, ci giocammo la promozione con Jesi. In questa circostanza recuperai palla, allo scadere scagliai un tiro dalla lunghissima distanza, ed in condizioni di equilibrio non certo ideali, misi la tripla del trionfo. Voglio sottolineare che questi successi sono stati possibili solo grazie all’apporto di persone che in primo luogo erano uomini di grande valore, oltre ad essere giocatori di primo livello. Dietro i miei canestri impossibili c’era l’enorme mole di lavoro svolto da gente umile, che non demordeva mai”.

D.) Capitolo allenatori. Non sempre i rapporti con i coach sono stati sereni.

R.) “Premetto che sono sempre stato allenato da coach validissimi, inclusi quelli con i quali ho avuto delle incomprensioni, come è del tutto normale che sia. Non ho mai fatto mistero di non aver vissuto un rapporto idilliaco con Marcelletti a Caserta, o con Caja a Roma. Purtroppo, quando un allenatore si è fatto una certa idea su di te è molto arduo fargli cambiare opinione. Comunque mi reputo fortunatissimo. Nella mia lunga carriera ho incontrato Bogdan Tanjevic, Alberto Bucci, Dido Guerrieri, Fabrizio Frates, Luca Dalmonte, Piero Pasini. Era insomma una pallacanestro fatta di fior di professionisti, anche in panchina”.

D.) Ed in campo, che tipo di serie A era quella che ha frequentato?

R.) “Tra compagni di squadra ed avversari ho affrontato campioni straordinari. Innanzitutto, ho giocato nello stesso campionato dei campioni d’Europa di Nantes. Aggiungiamoci, in ordine sparso: Oscar, Richardson, Dawkins, McAdoo, Rowan, Binion, Kukoc, un giovanissimo Ginobili, Mario Boni. Come fai a sceglier il migliore tra questi, ma ne potrei menzionare tantissimi  altri”.

D.) La personale partita della vita?

R.) “Scelgo una maiuscola prestazione in coppa Korac, stagione 96/97, contro Granada. Le mie “bombe” furono determinanti per il superamento del turno”.

D.) L’amore verso la palla a spicchi non si estingue di certo. Attualmente ricopre il ruolo di team manager nella sua Chieti, che milita in B. Come vede il panorama del basket contemporaneo?

R.) “Le risorse economiche scarseggiano, in particolare nelle serie minori. Questo è un dato di fatto ahimè acclarato ormai da tempo. Anche affrontare una stagione di B è un impegno gravoso, la carenza di sponsor è palese. Noi ci mettiamo un enorme carico di passione, ma chiaramente non basta. Sotto il profilo tecnico, è innegabile che il gioco abbia subito una rivoluzione. Si fa molta leva sul fattore fisico, trascurando la tecnica. Scarsissima è l’attenzione verso i fondamentali. Sono cresciuto cercando, almeno in piccolo, di emulare le gesta di Larry Bird, Magic Johnson, Michael Jordan. Ero innamorato di loro. Univano essenzialità e classe. Non li ho mai visti, per esempio, fare un palleggio di troppo. Arresto, tiro, canestro: quanto era bello tutto questo”.

Autore

  • Gerardo De Biasio

    Autore anche del libro “Un Canestro di ricordi“, opinionista per PassioneBasket, curerà per noi una rubrica dedicata al basket amarcord, denominata “𝗨𝗻 𝗧𝘂𝗳𝗳𝗼 𝗻𝗲𝗹 𝗣𝗮𝘀𝘀𝗮𝘁𝗼”.