Se esiste un giocatore che incarna lo spirito Fortitudino questi è Giacomo Zatti. Indossa la canotta della Effe dal 1982 al 1990, Anni che vedono la Bologna biancoblu’ in bilico tra la A1 e l’A2. Anni ruggenti e ruspanti, marchiati in primis dalla sempiterna rivalità con la Virtus. Abbandonata Bologna lascia il segno anche a Montecatini e Forlì. Mi risponde da Punta Cana, Repubblica Dominicana. Qui, il Nostro gestisce diversi locali in riva al mare.

Per gli amici di 𝑷𝒂𝒔𝒔𝒊𝒐𝒏𝒆𝑩𝒂𝒔𝒌𝒆𝒕 ecco allora la mia intervista a Giacomo Zatti. Buona Lettura!

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D.)  Cosa le manca del tempo speso a rincorrere avversari e macinare chilometri su un parquet?

R.) “Compagni, allenatori, dirigenti, il pubblico che gremiva i palazzetti, l’adrenalina dei minuti antecedenti ogni partita. Quando uscivo dal sottopassaggio e mettevo piede in campo avvertivo sensazioni inebrianti, difficili da spiegare a parole”.

D.) Ci descrivere in sintesi il suo modo di giocare?

R.) “Ci mettevo tanta grinta, non mi sono mai tirato indietro. Tanto è vero che, secondo le statistiche, risultavo essere sovente il più falloso della Fortitudo. Da giovane puntavo su un modo di giocare ragionato. Nel pieno della maturità fisica sono diventato più aggressivo. Amavo recuperare palla, condurre il contropiede, servire assist ai compagni. Io stesso ho vissuto il cambiamento che ha interessato ruolo di play. Proprio in quel periodo, si stava passando dal classico play che impostava le azioni, esempio per tutti il sublime Aldo Ossola, a quello che aveva tanti punti nelle mani. Vedasi Brunamonti o Nando Gentile”.

D.) Era una serie A composta da giocatori formidabili, ogni domenica una sfida impegnativa. 

R.) “Campionato equilibrato e difficile per tutti. Le grandi rischiavano su ogni campo. Le ragioni di questa epoca d’oro sono diverse. Innanzitutto, i giocatori italiani in grado di fare la differenza erano una moltitudine. Tanto è vero che la nazionale raggiunse risultati strabilianti, dall’argento olimpico di Mosca al successo europeo di Nantes. Si potevano schierare solo due stranieri, che in gran parte erano campioni di livello mondiale. Si dava la giusta rilevanza al vivaio, l’appartenenza ai colori sociali faceva da filo conduttore”.

D.) Cos’ è per lei la Fortitudo?

R.) “La mia vita sportiva e non solo. Una passione che mi accompagna sin da ragazzino, quando insieme ai miei amici ne seguivo le gesta sugli spalti. Crescere nel mito di Gary Schull, leggenda di questo club, e ritrovarsi capitano della Fortitudo è un qualcosa di indescrivibile. Si sa che il sostenitore della Effe segue i propri beniamini a prescindere dalla categoria. Un amore inestinguibile”.

D.) I momenti da immortalare?

R.) “Quando eliminammo le V Nere nei playoff con un secco 2-0, stagione 87-88. Freschi di promozione in A1, affrontammo la stracittadina senza pressioni particolari, con animo leggero, ma convinti di poter fare lo sgambetto ai cugini. Quando accadde ci pareva di esser diventati campioni del mondo. Ovviamente anche il cosiddetto derby del “grande freddo” ha un posto speciale nel mio cuore. Battemmo i bianconeri 70-102, per giunta davanti ai loro tifosi”.

D.) Che succedeva in quelle sfide infuocate?

R.) “Goliardia e sano sfottò la facevano da padroni. Il derby lo respiravi dodici mesi l’anno, a Bologna il basket è notoriamente popolarissimo. In tante famiglie la fede cestistica era diversa. A me capitava che molti miei amici fossero virtussini. Andavi dal salumiere e dal barbiere e ti chiedevano del derby. Tra i giocatori delle due squadre c’ è sempre stato rispetto. Vedi, mi ritengo fortunato ad aver vissuto in un basket a dimensione umana. Non ci sentivamo delle star, ci piaceva avere un contatto diretto con la città. Aggiungiamo che a Bologna il basket non si ferma mai. Per esempio, l’atmosfera che circonda i celebri tornei estivi dei Giardini Margherita è unica”.

D.) Ha respirato l’aria di basket city sin da ragazzo.

R.) “Dopo aver frequentato l’oratorio praticando diversi sport, mi sono innamorato della pallacanestro. Iniziai a capite che potevo diventare un cestista a Sasso Marconi. I miei primi coach sono stati Zoccadelli e Bongiovanni. Grazie a loro ho imparato i primi rudimenti”.

D.) Altri allenatori importanti?

R.) “L’impronta l’hanno lasciata tutti. Dodo Rusconi mi volle in nazionale juniores, Mauro Di Vincenzo (che mi fece capitano della Fortitudo) e Rudy D’Amico confidavano in me. Gianfranco Benvenuti, avuto a Montecatini, mi responsabilizzò affidandomi i gradi di capitano dopo la squalifica di Mario Boni”.

D.) Montecatini. altra piazza passionale, altro grande amore.

R.) “Nel 1992 salimmo in A1, appunto sotto la guida illuminata di coach Benvenuti. Tecnico di enorme competenza e persona simpaticissima. Anche a Montecatini incontrai un trascinante entusiasmo, ottenemmo vittorie prestigiose”.

Autore

  • Gerardo De Biasio

    Autore anche del libro “Un Canestro di ricordi“, opinionista per PassioneBasket, curerà per noi una rubrica dedicata al basket amarcord, denominata “𝗨𝗻 𝗧𝘂𝗳𝗳𝗼 𝗻𝗲𝗹 𝗣𝗮𝘀𝘀𝗮𝘁𝗼”.

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