Nelle infinite sfide con gli amici al campetto, cercavo vanamente di imitare il suo modo di tirare dalla lunetta. Guardava fisso il canestro, emetteva un sospiro, e CIUFF, la palla andava a depositarsi nella retina. Non uso troppi giri di parole, Antonello Riva è una leggenda. Due volte campione d’Europa, uno scudetto, tre coppe delle coppe, una intercontinentale. Allori, questi, conquistati nella società che l’ha visto imporsi: la Cantù delle meraviglie. Una Korac in maglia Olimpia, la promozione in A1 a Gorizia, il salto in A2 e la coppa Italia di categoria a Rieti. Un vincente anche in azzurro. Tra gli artefici dell’oro di Nantes dell’83 e dell’argento di Roma del 1991. Marcatore principe della serie A e della nazionale.
Per gli amici di 𝑷𝒂𝒔𝒔𝒊𝒐𝒏𝒆𝑩𝒂𝒔𝒌𝒆𝒕 ecco allora la mia intervista a Antonello Riva. Buona Lettura!
D.) Una passione per il basket sviluppatasi da bambino.
R.) “Nata per caso, in quinta elementare. Mi dilettavo con la corsa campestre ed il lancio del peso. Partecipai ai Giochi della Gioventù. Vista l’altezza, già all’epoca superiore a quella dei miei coetanei, alcuni allenatori mi proposero di provare con la pallacanestro. Mi innamorai immediatamente di questo gioco”.
D.) Ha incontrato sulla sua strada allenatori mitici. Immagino abbia appreso qualcosa da ognuno di loro.
R.) “Arnaldo Taurisano mi insegnò i fondamentali. Lo conobbi appena arrivato a Cantù, riuscì a sgrezzarmi, a darmi pulizia nei movimenti. Valerio Bianchini mi concesse la fiducia necessaria a farmi prendere una maggiore consapevolezza delle mie potenzialità. Ovviamente non posso dimenticare gli insegnamenti di Carlo Recalcati, dello stesso Fabrizio Frates. In nazionale, l’essere stato allenato da Sandro Gamba si è rivelato provvidenziale. Ho avuto la fortuna di conoscere coach di grandissima levatura”.
D.) Oltre alla classe adamantina, è celebre per la sua fisicità. Aspetto, quest’ultimo, appannaggio di pochi eletti, a quei tempi.
R.) “Da ragazzo aiutavo mio padre nell’attività di piastrellista. Un lavoro duro, che contribuì non poco al mio sviluppo muscolare. Inoltre, ho sempre preso seriamente ogni allenamento, sempre seguito scrupolosamente le indicazioni dei preparatori atletici”.
D.) Cosa aveva di speciale il modello Cantù?
R.) “Una struttura societaria perfettamente organizzata. Noi ragazzi venivamo seguiti nella nostra crescita anche al di fuori del campo prettamente agonistico. Questo aspetto faceva la differenza. Dovevamo studiare con profitto, tenere un comportamento educato. Le famiglie stesse affidavano i propri figli a quello che era, ed è, più che un semplice sodalizio cestistico”.
D.) Parliamo di un piccolo centro diventato una potenza continentale. Lei è stato parte attiva in molti successi canturini. A quale è maggiormente legato?
R.) “Alla prima coppa campioni, vinta a Colonia contro il Maccabi, nel 1982. Quando entrammo in campo il palazzetto di Colonia era quasi completamente colorato di giallo, i colori dei nostri antagonisti. Ma il tifo canturino si fece sentire eccome. Fu una soddisfazione immensa. Va da sé che conservo ricordi meravigliosi anche della seconda coppa campioni, arrivata l’anno dopo. a Grenoble. Sconfiggemmo gli arci rivali di Milano alla fine di una partita durissima”.
D.) Nantes, nella mente degli amanti della pallacanestro, vuol dire un oro conquistato da un gruppo eccezionale.
R.) “Eravamo partiti convinti di ben figurare, non pensavamo di poter vincere. Strada facendo, prese forma la convinzione di portare a casa un risultato di prestigio. La famosa partita con la Jugoslavia, che quando capì di non poterci battere la mise sul piano della rissa, segnò la svolta. Era un’Italia composta da giocatori validissimi in ogni reparto. Ognuno portava il proprio contributo alla causa”.
D.) Abbiamo accennato a Sandro Gamba. In quell’europeo fu il vostro condottiero. La definizione “come un padre” non è certo banale.
R.) “Concordo in pieno. Per noi, Sandro Gamba rappresenta davvero qualcosa di più che un allenatore. Lo ritengo il primo fautore di quel trionfo. Importantissimi furono gli apporti di Cesare Rubini, Riccardo Sales e del presidente Gianni Petrucci, all’epoca segretario generale FIP”.
D.) Di campioni, tra le fila avversarie e quelle amiche, ne ha conosciuti a bizzeffe.
R.) “Romeo Sacchetti e Mike Sylvester erano quelli che soffrivo maggiormente. Riuscivano a contrastarmi, perché anche loro forti fisicamente. Tra i compagni di squadra non ho che l’imbarazzo della scelta. Marzorati e Meneghin sono pilastri del basket non solo italiano. Bosa, Pessina, Pittis li considero eccellenti giocatori. Straordinario reputo Djordjevic, insieme al quale ho giocato due stagioni a Milano”.
D.) Se dovesse indicarmi la delusione più cocente?
R.) “Lo scudetto del 1991, perso in finale contro la Juve Caserta. Avevamo vinto tutte le partite in casa. Cedemmo davanti al nostro pubblico proprio in gara-5”.
D.) Capisco che in questo caso la scelta sia difficile: la partita nella quale ritiene di essere stato più determinante?
R.) ” Gara-3 di semifinale del campionato 80-81, disputata con Cantu’ al vecchio palazzo dello sport contro Milano. Segnai 32 punti, davanti a circa 10.000 persone. La stagione si concluse con lo scudetto. Battemmo in finale la Virtus Bologna”..